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L’ATTORE E IL SUO FUOCO

                               Forse ritrovare il filo che ci lega a una sapienza antica
                               trasmessa attraverso i gesti, la voce, la scrittura di chi ci
                               ha preceduto, può inceppare, almeno un poco,
                               l’ingranaggio. In queste prove convivono le parole del
                               presente con frammenti di Pirandello, Shakespeare,
                               Ibsen, Čechov, Leopardi, Pasolini, ma anche dei nostri
                               maestri di teatro: presenti accanto a noi, contribuiscono
                               a rendere manifeste quelle trasformazioni che forse sono
                               già in atto ma che non riusciamo, nell’affastellarsi della
                               vita quotidiana, a comprendere e ad assecondare. Sto in
                               ascolto, vestita di carta, tra ghiaccio e fuoco.


                               Come un eterno ritorno
                               di Marco Manchisi

                               Esiste una linea di confine molto sottile, quasi invisibile, che
                               divide la vita privata di un artista, da quella creativa e
                               pubblica. Trovarsi al di là o al di qua di quella linea è un
                               attimo, un soffio e le due vite portano inevitabilmente con sé
                               ognuna parte dell’altra. Il fuoco della creatività coinvolge a
                               tal punto, che finisce per assorbire sensibilità, emozioni e
                               visioni della vita privata, così che le doppie identità si
                               confondono tra loro, si nutrono a vicenda e,
                               necessariamente, vanno a completarsi.
                               Mi sovviene una frase di Antonio De Curtis, in arte Totò,
                               quando, a proposito dell’essere comico afferma: «Io so a
                               memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera
                               comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il
                               dolore, la fame, il freddo, l’amore della speranza, la
                               disperazione della solitudine di certe squallide camerette
                               ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di
                               provincia; e la vergogna per i pantaloni sfondati, il desiderio
                               di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la
                               cattiveria del pubblico senza educazione. No, non si può
                               essere un vero attore comico, senza aver fatto la guerra con
                               la vita…» Vivere nello spettacolo Mangiafoco è per me
                               come galleggiare in un liquido amniotico, nel quale rifletto
                               sul rapporto tra vita e teatro, dove le due condizioni vanno a
                               confrontarsi, a riflettersi, in un corpo a corpo tra persona e
                               personaggio, che vicendevolmente si chiedono “cosa e
                               quanto vuoi da me?” Nel teatrino di Mangiafoco si recita, i
                               burattini fingono vita, chiedono pietà per non morire e,
                               come fanno gli attori in carne ed ossa, cambiano volto, si
                               trasformano, ed è cosa necessaria per poter rinascere ogni
                               volta e tornare a vivere con rinnovata energia. Gli attori,
                               come Pinocchio, sono la metafora di un ciclo, tra vita e
                               morte, tra un sipario che si apre e uno che si richiude, in un
                               eterno ritorno alla scena delle verità e delle finzioni, in
                               un’organica circolarità. Poi esiste un terzo polo, costituito
                               dal mondo esterno, in cui emerge l’aspetto cupo di

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