Page 13 - RAGAZZO ULTIMO BANCO - PICCOLO 2018-2019
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IL RAGAZZO DELL’ULTIMO BANCO AL PICCOLO TEATRO
dicono, due motivi ricorrenti nel mio teatro: la
trasmissione di esperienza e la tensione tra realtà e
desiderio. Altri credono che la commedia rappresenti,
soprattutto, l’epifania di uno scrittore, ovvero, il
momento in cui un individuo realizza che la sua
passione, la sua missione, il senso della sua vita è
osservare quelle degli altri, immaginarle e trasferirle sulla
pagina. La scoperta del potere manipolatorio e
vivificatore delle parole, la sensazione che
s’impadronisce di chi sceglie l’ultimo banco perché da lì
può osservare tutti gli altri. La presa di coscienza,
anche, del fatto che quel dono condanna chi ne sia
posseduto a vivere nascosto in mezzo ai propri simili, in
un altro banco, solo, mantenendo la distanza infinita
necessaria a tradurre sulla pagina le vite degli altri. Il
ragazzo dell’ultimo banco sarebbe, insomma, un testo
sulla follia dello scrivere.
Alcuni mi dicono che mette in scena la scrittura di per
sé. E che, facendolo, induce lo spettatore a farsi
domande sulla letteratura, l’arte in generale e, infine,
sullo spettacolo. Domande come «Per chi scrive
l’autore?», o «l’arte ci rende migliori?»; nella misura in cui
queste domande si attagliano anche a Il ragazzo
dell’ultimo banco – «questo è verosimile?», o «questa
scena cosa aggiunge all’opera?», o «sarà teatro per
degenerati?» –, lo spettatore è invitato a indossare i
panni del critico.
E c’è chi vede al centro del testo un desiderio che non è
solo degli scrittori o degli artisti, ma universale e
quotidiano: quello secondo cui ogni essere umano
sente il bisogno di immaginare le vite degli altri e di
immaginarsi, tra gli altri, altro da sé. È necessario – mi
dicono tali esegeti – che queste vite immaginarie siano
non meno importanti di quelle che, di fatto, viviamo –
sempre che sia possibile distinguere tra le une e le altre.
Il giudizio di questi ultimi mi fa pensare a Calderón, il
maggior drammaturgo spagnolo del Barocco, che
descrisse il mondo del sogno non come opposto alla
veglia, ma come una sfera che lo avvolge. Meditare su
Calderón mi porta a suppore che Il ragazzo dell’ultimo
banco – che per alcuni mesi s’intitolò I numeri
immaginari – davvero tratti di quel mondo di finzioni,
nostre e altrui, che ci avvolge e ci attraversa, un mondo
solido e fragile come quello in cui abitano i nostri corpi.
Tutti siamo finzione. Siamo creature immaginarie dei
nostri racconti. Ma lo siamo anche delle storie degli altri,
dei racconti scaturiti dal desiderio o dalla paura altrui.
Siamo personaggi nei sogni degli altri – mi fa pena chi
non è un personaggio del sogno di nessuno.
Sospetto, sì, che Il ragazzo dell’ultimo banco tratti,
soprattutto, di sogni. Come mi rende felice il fatto che
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