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NEL TEMPO DEGLI DEI 2.qxp_00 11/03/19 10:11 Pagina 12
GABRIELE VACIS
limiti e, quanto all’immortalità, sembrava comunque
compresa nella sfera percettiva umana. Questo rapporto
con gli dèi ha a che fare con “l’impermanenza”.
Impermanenza viene dal termine sanscrito anitya. Per i
buddisti è uno dei caratteri che fondano la vita.
Qualcosa come le virtù teologali per i cattolici. Anitya è il
divenire, la transitorietà di ogni aspetto dell’esistenza
umana. Tutto cambia, niente è eterno. La permanenza è
un abbaglio. Vanità, direbbe Qoelet, che racconta la
fatica di comprendere che «Tutto ha il suo momento, e
ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo
per nascere e un tempo per morire…». Accettare
l’impermanenza, percepire la sua concreta realtà, è
l’unica strada per vedere con serenità il flusso della vita.
Ecco: dev’essere qualcosa del genere la presenza degli
dèi per i greci di due o tremila anni fa. Le stesse «storie
che non avvennero mai ma che sono sempre» che
avevano in testa i nostri genitori, i nostri nonni.
E noi? Adesso? Oggi dove sono gli dèi? Dov’è Dio?
La risposta esatta che si doveva dare al catechismo non
contraddice quello che voglio dirvi: dov’è Dio? «In cielo,
in terra e in ogni luogo». La prima cosa che mi ha
chiesto Paolini quando abbiamo cominciato a parlare di
questo spettacolo è stata: leggi Homo deus di Yuval
Noah Harari. Lì si trova una risposta che non
contraddice quella del catechismo: adesso gli dèi siamo
noi. E noi umani siamo, letteralmente, in cielo, in terra e
in ogni luogo, considerando anche che vuoti sconosciuti
sulle carte geografiche non ne esistono praticamente
più. In particolare, noi occidentali ricchi siamo diventati
quelli che fanno i temporali, quelli che abitano chiese
preziosissime: New York, Parigi, ma anche Dubai o Seul.
Siamo noi quelli che il resto del mondo vede «sospesi in
alto… tra i raggi del legno dorato». Siamo noi che,
discrezionalmente, senza bisogno di motivi razionali,
decidiamo dove devono stare gli umani e come devono
starci. Il libro di Calasso racconta l’ultima volta in cui gli
umani e gli dèi si sono seduti, insieme, allo stesso
banchetto. Poi hanno cominciato a costruire muri.
Da una parte gli dèi, dall’altra gli uomini. Ed è stato così
per millenni. Finché gli uomini sono stati vittime
impotenti di carestie, pestilenze, guerre, provocate dagli
dèi, protetti dai loro muri. Poi è cambiato qualcosa.
Harari, nel suo Homo deus, spiega come la scienza, le
tecnologie ci hanno profondamente cambiati. Grazie a
loro non siamo più impotenti di fronte a carestie,
pestilenze, guerre. Grazie alle conoscenze che abbiamo
acquisito siamo diventati noi stessi responsabili del
nostro destino. Per questo non possiamo più chiedere
niente agli dèi, non possiamo più incolparli di quello che
ci accade. Possiamo incolpare solo più noi stessi.
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