Page 12 - FINE PENA ORA - PICCOLO TEATRO MILANO - STAGIONE 2017 2018
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            PAOLO GIORDANO
                                     un rapporto il più possibile paritario. Ma, se il libro offriva una
                                     disamina accurata della vicenda processuale e carceraria di
                                     Salvatore, così come della sua personalità e delle sue
                                     sofferenze private, il giudice non vi era davvero presente in
                                     quanto personaggio. La sua era una voce accorata,
                                     tormentata alle volte, ma pur sempre incorporea. Il bisogno
                                     del giudice, il suo dispiacere segreto, così essenziali per far
                                     respirare ogni personaggio, andavano immaginati,
                                     probabilmente inventati. È stata questa la prima necessaria
                                     licenza, l’oggetto della sola conversazione «di presenza»,
                                     come direbbe Salvatore, che ho avuto con Elvio Fassone.
                                     D’altra parte, c’era una zona irraggiungibile in Salvatore
                                     stesso. Non riguardava tanto le sue origini o il suo passato
                                     criminoso, né il presente del carcere, bensì il suo linguaggio.
                                     Nel libro compaiono alcune frasi pronunciate o scritte da lui,
                                     ma molte altre sono mediate dal giudice. Ho compreso che
                                     nel complesso non mi sarebbero state sufficienti a penetrare
                                     il suo modo così speciale di esprimersi. Potevo imporgli una
                                     voce, certo, ma sarebbe stato giusto? Proprio come il
                                     magistrato, anche l’autore di quelle frasi era vivo, sebbene
                                     non avessi la possibilità di incontrarlo. Così ho pensato di
                                     ripartire dalle lettere. Con un atto di fiducia Fassone mi ha
                                     consegnato quelle che aveva ricevuto, tutte, trent’anni di
                                     lettere, la metà esatta di una vita epistolare. Sono uscito da
                                     casa sua reggendo un sacco pieno. Le ho lette in ordine
                                     cronologico, una decina al giorno, destreggiandomi nella
                                     calligrafia faticosa e nelle formule di cortesia – «Caro
                                     Presidente, spero di trovarla bene e lo stesso posso dirle
                                     di me...» –, finché sono stato in grado di anticipare molte
                                     delle espressioni, finché ho sentito nelle orecchie quel ritmo
                                     a metà fra il parlato e una scrittura formale e ossequiosa.
                                     Il Salvatore in scena parla spesso come il Salvatore delle
                                     lettere, in quel registro privato che esiste soltanto fra lui e
                                     il giudice. Trent’anni di lettere. Ed ecco l’ultima questione:
                                     il tempo, che a teatro è sempre un nemico. Come far
                                     scorrere trent’anni in poco più di sessanta minuti? Dopo
                                     avere scandito le date nelle quali si svolgeva il rapporto a
                                     distanza fra i due protagonisti, ho fatto del mio meglio,
                                     stesura dopo stesura, per eliminare quella struttura
                                     sottostante, per nasconderla, confonderla. A teatro
                                     Salvatore e il suo giudice si parlano «fuori dal tempo», o per
                                     meglio dire, come «dimentichi del tempo». Vivono in un qui
                                     e ora, ma possono tornare ad abitare improvvisamente il
                                     passato. Sono fantasmi in grado di attraversare non solo
                                     i muri del carcere, ma anche gli anni. Fantasmi, sì, perché
                                     ognuno è lo spettro immateriale evocato dall’altro.
                                     Si trovano entrambi nella stessa stanza, sullo stesso
                                     palcoscenico, eppure sono costantemente separati, il
                                     giudice nella propria casa e Salvatore dentro la sua cella,
                                     insieme e tuttavia da soli – proprio come accade anche a
                                     noi ogni volta che scriviamo una lettera a qualcuno.


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