Page 41 - ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI - PICCOLO TEATRO MILANO - STAGIONE 2016/2017
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ARLECCHINO, LA MIA VITA
       Ferruccio Soleri e Giorgio Strehler  sentivo come svuotato. Il primo atto andò così così; il
       provano Arlecchino.
                               secondo, con la scena del pranzo e del budino interessò
                               molto il pubblico; nel terzo sentii che ce la potevo fare.
                               Questa è stata la mia prima volta come Arlecchino.
                               Indimenticabile. Nel 1961 morì Marcello Moretti e di
                               Arlecchino non si parlò più.
                               Fu durante le repliche del Galileo di Brecht (1963) che mi
                               dissero che Strehler voleva riprendere Arlecchino in una
                               edizione particolare a Villa Litta, all’aperto. Iniziai a provare
                               con Virginio Puecher. Poi arrivò Strehler e cominciò a
                               smontare tutto: «Ferruccio qui la voce non va. Devi
                               trovarla, devi rinforzarla». Mi diede da fare degli esercizi di
                               sostegno fra cui uno utilissimo: leggere il giornale senza
                               mai fermarsi, senza respirare e senza punteggiatura fino a
                               quando mi reggeva il fiato e poi da capo. È stato
                               lavorando con lui che ho capito cosa era Arlecchino e
                               cosa era stata la Commedia dell’Arte ben al di là dei libri
                               che avevo letto. Da parte mia gli portavo la mia abilità
                               nell’acrobazia, la mia voglia di fare, le mie caratteristiche,
                               la mia gioventù. Ma la mia voce l’ho trovata solo nel
                               secondo anno; prima ero troppo preoccupato
                               dell’incontro con il pubblico e con la critica. Il mio
                               Arlecchino lo devo proprio a Strehler, che mi ha dato
                               tutto. Difficoltà ne ho avute molte.
                               La prima nasceva dal mio rapporto con la maschera.
                               «Non fai ridere; non esprimi niente», diceva Strehler
                               durissimo, e questo mi gettava nel panico. Ho cominciato
                               a studiare la maschera davanti allo specchio. Lì ho capito
                               che la maschera spingeva a interiorizzare quello che
                               avrebbe dovuto sentire il corpo. Ero terrorizzato da
                               questo; poi ho capito di avere un vantaggio: potevo
                               guardare il mondo dal buco della serratura, mentre gli altri
                               non potevano vedere le mie emozioni. Solo mentre
                               provavo l’edizione “dell’Addio”, nel 1987, Strehler mi ha
                               detto una cosa che ricorderò per sempre: «Ferruccio, io
                               non capisco. Tu invecchi, ma il tuo Arlecchino è sempre
                               più giovane. Ma come fai?».
















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