Page 19 - LEHMAN TRILOGY - STEFANO MASSINI - LUCA RONCONI - PICCOLO TEATRO DI MILANO
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CONVERSAZIONE CON STEFANO MASSINI
loro ascesa sociale e l’integrarsi nella nuova società
americana.
Con Ronconi abbiamo parlato spesso di questo aspetto.
Perfino il primo giorno di prove, lui lo ha indicato agli attori
come uno dei baricentri dell’opera: la trasformazione di
un’identità. Io credo che il fatto che la trilogia porti in scena
un così lungo periodo di tempo imponga una riflessione sul
nostro rapporto con il passato. Purtroppo si è convinti che
l’unico modo di porci nei suoi confronti sia la dimensione
del ricordo, quindi una specie di revisione limitata, quasi
cinematografica, non interagibile. Nel lavoro che abbiamo
fatto sul testo c’è invece la convinzione che la memoria sia
uno spazio coeso, dove i morti coabitano con i vivi e le linee
– risolte e irrisolte – si continuano a dipanare spiegando
avanti e indietro possibili nessi fra le cose. È la ragione per
cui, fino dalla primavera scorsa, abbiamo iniziato ad
assegnare le battute indipendentemente dal fatto che un
personaggio sia ancora vivo o già morto. Ronconi mi parlò
subito, non a caso, di Lungo pranzo di Natale di Thornton
Wilder.
Il testo della trilogia non è stato privo di interventi in
vista della messinscena. Raccontaci come è iniziato il
profondo lavoro di integrazione drammaturgica
svolto insieme a Ronconi.
È così. Luca Ronconi mi scrisse una lettera, come lui usa
fare, nel mese di luglio del 2012: aveva appena terminato di
leggere l’opera e mi comunicava di averla trovata
interessante. Andai a trovarlo in Umbria poco dopo, in
occasione della sua attività al Centro Teatrale Santa
Cristina, e ipotizzò di lavorare in forma scenica su alcune
parti del testo nell’estate 2014. Quando lo rincontrai, alcuni
mesi dopo, mi disse però di aver pensato più giusto
sottoporre il progetto al Piccolo Teatro, purché io mi
impegnassi a lavorare con lui sull’elaborazione. Questo
lavoro ha occupato dieci mesi, una stretta interazione fra
autore e regista separati da oltre quarant’anni di anagrafe,
che ricorderò sempre come un’occasione straordinaria di
confronto, di dibattito, di geniali invenzioni e di traiettorie
assolutamente sorprendenti nel suo modo di vivisezionare
un testo.
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loro ascesa sociale e l’integrarsi nella nuova società
americana.
Con Ronconi abbiamo parlato spesso di questo aspetto.
Perfino il primo giorno di prove, lui lo ha indicato agli attori
come uno dei baricentri dell’opera: la trasformazione di
un’identità. Io credo che il fatto che la trilogia porti in scena
un così lungo periodo di tempo imponga una riflessione sul
nostro rapporto con il passato. Purtroppo si è convinti che
l’unico modo di porci nei suoi confronti sia la dimensione
del ricordo, quindi una specie di revisione limitata, quasi
cinematografica, non interagibile. Nel lavoro che abbiamo
fatto sul testo c’è invece la convinzione che la memoria sia
uno spazio coeso, dove i morti coabitano con i vivi e le linee
– risolte e irrisolte – si continuano a dipanare spiegando
avanti e indietro possibili nessi fra le cose. È la ragione per
cui, fino dalla primavera scorsa, abbiamo iniziato ad
assegnare le battute indipendentemente dal fatto che un
personaggio sia ancora vivo o già morto. Ronconi mi parlò
subito, non a caso, di Lungo pranzo di Natale di Thornton
Wilder.
Il testo della trilogia non è stato privo di interventi in
vista della messinscena. Raccontaci come è iniziato il
profondo lavoro di integrazione drammaturgica
svolto insieme a Ronconi.
È così. Luca Ronconi mi scrisse una lettera, come lui usa
fare, nel mese di luglio del 2012: aveva appena terminato di
leggere l’opera e mi comunicava di averla trovata
interessante. Andai a trovarlo in Umbria poco dopo, in
occasione della sua attività al Centro Teatrale Santa
Cristina, e ipotizzò di lavorare in forma scenica su alcune
parti del testo nell’estate 2014. Quando lo rincontrai, alcuni
mesi dopo, mi disse però di aver pensato più giusto
sottoporre il progetto al Piccolo Teatro, purché io mi
impegnassi a lavorare con lui sull’elaborazione. Questo
lavoro ha occupato dieci mesi, una stretta interazione fra
autore e regista separati da oltre quarant’anni di anagrafe,
che ricorderò sempre come un’occasione straordinaria di
confronto, di dibattito, di geniali invenzioni e di traiettorie
assolutamente sorprendenti nel suo modo di vivisezionare
un testo.
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