Page 18 - LEHMAN TRILOGY - STEFANO MASSINI - LUCA RONCONI - PICCOLO TEATRO DI MILANO
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GERARDO GUCCINI
o centomila (o nessuno se ci limitiamo a leggere).
Esistono tante forme di scrittura quanti sono i possibili patti
comunicativi fra un pubblico e un interprete. Quindi infiniti.
L’autore teatrale è colui che fornisce al palcoscenico un
materiale “pensato per la scena”, ma non necessariamente
“predisposto per l’uso scenico”. Significa che un testo può
essere di genere drammatico anche senza avere una forma
immediatamente provabile sulla scena, così come – per
opposto – un testo già diviso in battute (e magari pure con
didascalie) può rivelarsi alla prova dei fatti del tutto privo di
efficacia teatrale. Ecco, in questo senso è un dato di fatto
che la Lehman Trilogy è stata scritta pensando in ogni
sillaba sia al palcoscenico (del quale insegue i ritmi) sia al
pubblico (al quale fornisce gli appuntamenti).
In “Lehman Trilogy” la morte è un appuntamento
drammaturgico: i riti ebraici di commiato costellano
l’andamento della trama, culminando nel rito per la
caduta del marchio nel 2008.
Si può dire che l’intera trilogia sia un grande requiem. Tutto
quanto il racconto è concepito come su un grande piano
inclinato, in fondo al quale si spalanca l’abisso. Dirò di più:
c’è una forza irresistibile, come l’attrazione di una
gigantesca calamita, che chiama tutto – in ogni momento –
verso il baratro. Questa consapevolezza mi ha portato a
scrivere l’opera non a caso in capitoli indipendenti, che
quindi hanno ciascuno una propria conclusione, un epilogo,
un micro-finale. Se vogliamo, quindi, una morte. È come se
il testo morisse quasi quaranta volte, e ogni volta, nel
riprendere, la banca si sforzasse di riepilogare la propria vita.
L’opera ha un andamento epico. Non solo per la
struttura del racconto, ma anche per l’emergere della
fondamentale tematica greca di una “hybris” punita
dagli dèi, lo schema omerico della vendetta dei numi
contro gli esseri umani che hanno troppo osato.
È un’analisi che condivido. Ma aggiungerei che la
tracotanza in questione non è soltanto quella più evidente
agli occhi: non si tratta unicamente di assistere
all’arricchimento di una famiglia che in pochi anni passa
dallo status di immigrati a quello (talvolta ostentato) di
danarosi newyorkesi. C’è molto di più, se si considera che
la parabola di Lehman Brothers passa attraverso la ricerca
di un rapporto sempre più rischioso fra l’istituzione
finanziaria e i cosiddetti clienti: in un secolo la banca passa
dalla semplice funzione di “custode del risparmio” a quella
di un centro di investimento, per finire poi con il trading più
spericolato.
La religione ha un ruolo forte nel testo. I Lehman
hanno un’identità profondamente intrisa di ebraismo
askenazita, destinato poi a sfumarsi nel tempo con la
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o centomila (o nessuno se ci limitiamo a leggere).
Esistono tante forme di scrittura quanti sono i possibili patti
comunicativi fra un pubblico e un interprete. Quindi infiniti.
L’autore teatrale è colui che fornisce al palcoscenico un
materiale “pensato per la scena”, ma non necessariamente
“predisposto per l’uso scenico”. Significa che un testo può
essere di genere drammatico anche senza avere una forma
immediatamente provabile sulla scena, così come – per
opposto – un testo già diviso in battute (e magari pure con
didascalie) può rivelarsi alla prova dei fatti del tutto privo di
efficacia teatrale. Ecco, in questo senso è un dato di fatto
che la Lehman Trilogy è stata scritta pensando in ogni
sillaba sia al palcoscenico (del quale insegue i ritmi) sia al
pubblico (al quale fornisce gli appuntamenti).
In “Lehman Trilogy” la morte è un appuntamento
drammaturgico: i riti ebraici di commiato costellano
l’andamento della trama, culminando nel rito per la
caduta del marchio nel 2008.
Si può dire che l’intera trilogia sia un grande requiem. Tutto
quanto il racconto è concepito come su un grande piano
inclinato, in fondo al quale si spalanca l’abisso. Dirò di più:
c’è una forza irresistibile, come l’attrazione di una
gigantesca calamita, che chiama tutto – in ogni momento –
verso il baratro. Questa consapevolezza mi ha portato a
scrivere l’opera non a caso in capitoli indipendenti, che
quindi hanno ciascuno una propria conclusione, un epilogo,
un micro-finale. Se vogliamo, quindi, una morte. È come se
il testo morisse quasi quaranta volte, e ogni volta, nel
riprendere, la banca si sforzasse di riepilogare la propria vita.
L’opera ha un andamento epico. Non solo per la
struttura del racconto, ma anche per l’emergere della
fondamentale tematica greca di una “hybris” punita
dagli dèi, lo schema omerico della vendetta dei numi
contro gli esseri umani che hanno troppo osato.
È un’analisi che condivido. Ma aggiungerei che la
tracotanza in questione non è soltanto quella più evidente
agli occhi: non si tratta unicamente di assistere
all’arricchimento di una famiglia che in pochi anni passa
dallo status di immigrati a quello (talvolta ostentato) di
danarosi newyorkesi. C’è molto di più, se si considera che
la parabola di Lehman Brothers passa attraverso la ricerca
di un rapporto sempre più rischioso fra l’istituzione
finanziaria e i cosiddetti clienti: in un secolo la banca passa
dalla semplice funzione di “custode del risparmio” a quella
di un centro di investimento, per finire poi con il trading più
spericolato.
La religione ha un ruolo forte nel testo. I Lehman
hanno un’identità profondamente intrisa di ebraismo
askenazita, destinato poi a sfumarsi nel tempo con la
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