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IL TEATRO CHE TENTA L’IMMAGINAZIONE
cinque anni. Questa condizione per me è quotidiana, ne
sono consapevole e ne ho coscienza». Consapevolezza
e coscienza sono le due parole che ci hanno
accompagnato lo scorso anno per Il teatro comico, ma
sono anche le parole fondanti del Novecento e quelle
attraverso cui abbiamo, ora, forse, delegato finalmente
una parte di responsabilità agli spettatori.
Non è solo “teatro nel teatro”: è molto di più.
Il Novecento ci ha accompagnato in una dimensione
meta teatrale costante. Penso ad Alfred Jarry: nel 1896,
con Ubu Roi, si presenta di fronte al pubblico
producendo lo stesso effetto dirompente che Sei
personaggi in cerca d’autore di Pirandello avrà
venticinque anni dopo. E così, a perdifiato, per tutto il
Novecento, non guardando soltanto agli autori, ma
anche agli attori: mi riferisco alla situazione italiana, a un
secolo che si è chiuso mettendo la parola fine a
un’epoca di capocomicati, di compagnie che vivevano
un’altra condizione di lavoro rispetto a noi oggi. Del resto
sono le linee guida della politica culturale che hanno
fatto di questo nostro momento un tempo nuovo, che
non sappiamo ancora bene definire, perché ci siamo in
mezzo, lo stiamo vivendo. Da spettatore, posso dire che
mi sembra che la dimensione meta teatrale abbia
chiamato a sé anche il pubblico, come se fosse
anch’esso passato a un altro livello: non è solo lo
spettacolo a riflettere su se stesso, ma anche chi lo
guarda. Dopo alcune drammaturgie degli anni Duemila,
in cui gli spettatori erano trascinati nello spettacolo e
sollecitati in modo diverso da prima, il teatro si sta
evolvendo, abbiamo bisogno di rispondere a domande
che abbiamo nel tempo imparato a formulare o che
stiamo ancora formulando... Per dire che il “meta teatro”
mi interessa non tanto per il gioco, ormai già obsoleto,
del teatro nel teatro, quanto per la capacità che ha di
produrre nuovo senso, di evolversi, di portarci in
quell’altrove che teniamo come confine e che miro a
spostare sempre un poco oltre.
C’entra forse anche il ruolo che può giocare il
Teatro Studio Melato come spazio?
Lo Studio è fondamentale rispetto a come stiamo
costruendo lo spettacolo. Non lo è solo in senso
prossemico, ma direi spirituale. È uno spazio che
ha un’elevazione con la quale si devono fare i conti.
È carico di una dimensione arcaica, è agorà che si fa
teatro, simboleggia l’eredità del mondo antico, la
“grande O di legno” di Shakespeare – citata anche nel
nostro spettacolo –: è uno degli spazi più moderni e
insieme antichi che si possano trovare.
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