Page 8 - MANGIAFOCO
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CONVERSAZIONE CON ROBERTO LATINI
In verità qui il gioco si fa ancora “più spinto”: gli
attori non stanno provando uno spettacolo.
Lo spettacolo prende vita partendo dalla fase
precedente, dal presentarsi in scena raccontando
qualcosa di sé…
Credo faccia parte dell’essere attore essere anche
burattinaio di se stesso, cioè essere qualcuno che si
mette in scena. Durante uno spettacolo, esiste sempre
una parte di noi che è condotta, dall’autore, dal regista,
dalla storia, e una che invece è libera. Il fulcro è in quel
passaggio tra ciò che è nella libertà, nella disponibilità,
nella cura, nella sensibilità di ogni attore e quanto invece
deve poi fare i conti con quello che s’ha da fare, con
quello che è il copione, che sono le indicazioni
dell’autore e del regista. Nella mia visione, gli attori sono
sempre liberi, se non nell’agire la scena, nel reagire alla
scena. È dalla loro reazione allo spettacolo, agli
spettatori, a quel silenzio che rimbalza indietro dalla
platea, che scaturisce la scintilla teatrale. Rompere il
silenzio è una responsabilità enorme, ogni volta che un
interprete va a pronunciare una parola, a compiere un
gesto, a respirare. Il teatro è anche questo: un rito del
silenzio, un luogo dove ci si reca per stare in silenzio in
coro; quindi la disponibilità che offriamo, da spettatori,
agli attori, si manifesta nel patto che esiste in relazione a
quel silenzio. Può sembrare un gioco di parole, ma la
“stonatura”, in uno spettacolo, interviene quando non
esiste l’accordo, nel senso musicale del termine, rispetto
a quel patto. Mangiafoco porta in scena anche la
personalità di ciascun interprete, raccontata attraverso
una biografia che è frutto di una selezione prodotta da
ognuno di loro all’interno del proprio vissuto, al di là degli
episodi che diventano aneddotica. Mi interessa la
scrittura rispetto a se stessi, l’atto di pronunciare il
proprio nome e cognome, il racconto delle proprie origini
artistiche e come, da quella partenza, si sia giunti fin qui.
Nel loro raccontarsi, gli attori si rivolgono a un
finto pubblico che indossa la maschera di un noto
personaggio dei fumetti. Perché?
Gli ascoltatori mascherati sono lo specchio sublime,
come livello più alto di bellezza. Si va di fronte a quel noi
potenziale, irreale, eppure possibile. In realtà non di una
vera audizione si tratta, anche se il meccanismo è
quello, non è un provino: è come se ognuno avesse
portato con sé elementi intercettati lungo il proprio
cammino. È l’attore che costantemente ha a che fare
con il proprio fuoco, lo mangia, ci si relaziona, in quella
metamorfosi che è il nucleo della sua storia: «non sono
lo stesso attore di vent’anni, di dieci anni fa, neanche
quello della scorsa stagione, né sono quello che sarò fra
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