Page 30 - L'OPERA DA TRE SOLDI - PICCOLO TEATRO MILANO - STAGIONE 2015/2016
P. 30
ROBERTO MENIN
un occhio a Brecht e l’altro al teatro di ricerca.
In questo quadro di continue rielaborazioni, è innegabile
però che la prima compiuta versione sia quella del Piccolo
Teatro, che costituì negli anni Cinquanta un passaggio
innovativo fondamentale per il teatro italiano. C’è un
pubblico che non può che ricordare quella versione,
quegli interpreti e quelle canzoni: le ha nell’orecchio, è
capace di canticchiarle.
Considerato l’affetto innegabile degli spettatori verso le
due versioni di Strehler, quella di oggi non potrà che
suscitare in loro interrogativi e sorprese.
Negli anni Cinquanta, Strehler, pur senza cercare
l’adattamento, diede alla traduzione (sostanzialmente sua)
la stessa impronta dello spettacolo: il mondo dei
delinquenti e degli accattoni venne trasferito nella Chicago
degli anni Trenta (originariamente era Londra), con forti
allusioni alla delinquenza immortalata dal cinema. In quegli
anni, ricordiamo, Fred Buscaglione cantava anch’egli le
gesta di briganti americani un po’ sgangherati e di pupe
cattivissime; qualche anno dopo una mafia da operetta
avrebbe animato le avventure di A qualcuno piace caldo
di Billy Wilder. Il testo di Brecht diventa con Strehler una
palestra della scrittura ironicamente divertita: c’è un largo
ricorso al gergo della mala (questa sì, milanese) ma anche
un linguaggio allusivo, straniato, che vira verso l’operetta.
In fondo, in linea con quello che si racconta: Brecht ci
presenta il mondo al contrario, con i poliziotti che se la
fanno con i delinquenti (con ampie scivolate sentimentali),
con i delinquenti che vogliono fare gli imprenditori, e gli
imprenditori a organizzare bande di mendicanti. Questo
divertentissimo quadro di genere – che però è
assolutamente serio nell’analisi brechtiana – è fortemente
debitore del clima italiano di quegli anni: siamo in pieno
boom economico, ci si sta dimenticando della povertà e il
passaggio dalla prima alla seconda versione (quella
celebre con Modugno e Milva) appofondisce il distacco
dal presente: l’ Opera entra nel regno della canzonetta.
L’Italia è ormai quella del Rischiatutto e si appassiona
soprattutto a Sanremo. La realtà mediale, finta ed
emotivamente forte a un tempo, diventa la cifra stilistica
ma anche l’obiettivo della critica del secondo, più caustico
Strehler.
Oggi, paradossalmente, stiamo tornando a tempi che non
sono molto lontani dal testo brechtiano delle origini.
Il gioco si sta facendo più duro, socialmente parlando, e i
protagonisti dell’ Opera riprendono ad agire sul serio.
Ma è soprattutto la musica di Weill a dare un tocco di
drammaticità e di straniamento intellettuale che il pubblico
non si aspetta. Infatti, la versione di Strehler, nata per il
Piccolo di via Rovello, non poteva accogliere la
maestosità orchestrale di sedici strumenti in scena.
La buca per i musicisti ne poteva contenere agilmente
30
un occhio a Brecht e l’altro al teatro di ricerca.
In questo quadro di continue rielaborazioni, è innegabile
però che la prima compiuta versione sia quella del Piccolo
Teatro, che costituì negli anni Cinquanta un passaggio
innovativo fondamentale per il teatro italiano. C’è un
pubblico che non può che ricordare quella versione,
quegli interpreti e quelle canzoni: le ha nell’orecchio, è
capace di canticchiarle.
Considerato l’affetto innegabile degli spettatori verso le
due versioni di Strehler, quella di oggi non potrà che
suscitare in loro interrogativi e sorprese.
Negli anni Cinquanta, Strehler, pur senza cercare
l’adattamento, diede alla traduzione (sostanzialmente sua)
la stessa impronta dello spettacolo: il mondo dei
delinquenti e degli accattoni venne trasferito nella Chicago
degli anni Trenta (originariamente era Londra), con forti
allusioni alla delinquenza immortalata dal cinema. In quegli
anni, ricordiamo, Fred Buscaglione cantava anch’egli le
gesta di briganti americani un po’ sgangherati e di pupe
cattivissime; qualche anno dopo una mafia da operetta
avrebbe animato le avventure di A qualcuno piace caldo
di Billy Wilder. Il testo di Brecht diventa con Strehler una
palestra della scrittura ironicamente divertita: c’è un largo
ricorso al gergo della mala (questa sì, milanese) ma anche
un linguaggio allusivo, straniato, che vira verso l’operetta.
In fondo, in linea con quello che si racconta: Brecht ci
presenta il mondo al contrario, con i poliziotti che se la
fanno con i delinquenti (con ampie scivolate sentimentali),
con i delinquenti che vogliono fare gli imprenditori, e gli
imprenditori a organizzare bande di mendicanti. Questo
divertentissimo quadro di genere – che però è
assolutamente serio nell’analisi brechtiana – è fortemente
debitore del clima italiano di quegli anni: siamo in pieno
boom economico, ci si sta dimenticando della povertà e il
passaggio dalla prima alla seconda versione (quella
celebre con Modugno e Milva) appofondisce il distacco
dal presente: l’ Opera entra nel regno della canzonetta.
L’Italia è ormai quella del Rischiatutto e si appassiona
soprattutto a Sanremo. La realtà mediale, finta ed
emotivamente forte a un tempo, diventa la cifra stilistica
ma anche l’obiettivo della critica del secondo, più caustico
Strehler.
Oggi, paradossalmente, stiamo tornando a tempi che non
sono molto lontani dal testo brechtiano delle origini.
Il gioco si sta facendo più duro, socialmente parlando, e i
protagonisti dell’ Opera riprendono ad agire sul serio.
Ma è soprattutto la musica di Weill a dare un tocco di
drammaticità e di straniamento intellettuale che il pubblico
non si aspetta. Infatti, la versione di Strehler, nata per il
Piccolo di via Rovello, non poteva accogliere la
maestosità orchestrale di sedici strumenti in scena.
La buca per i musicisti ne poteva contenere agilmente
30