Page 10 - LEHMAN TRILOGY - STEFANO MASSINI - LUCA RONCONI - PICCOLO TEATRO DI MILANO
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se ce le leggi e la tua sensibilità le ritrova, allora esistono.
Il mio ruolo, come regista, è far sì che la commedia dica
“queste persone mi stanno leggendo” ma non voglio e
non devo sovrascrivervi il mio giudizio. Posso esprimere
una mia opinione sulle vicende che la commedia
racconta, ma non pretendo che il mio sguardo diventi lo
sguardo dello spettatore… A me il mondo americano non
è mai piaciuto, ma non mi sognerei mai di farlo venir fuori.
Parliamo delle relazioni tra i personaggi. Possiamo
parlare di una dialettica tra padri e figli, tra vecchi e
giovani, oppure no?
Direi di no. Se fossi nel pubblico non prenderei i sottotitoli,
come Padri e Figli, in maniera troppo letterale, perché
potrebbe essere fuorviante. Non abbiamo un padre che
schiaccia un il figlio, o un figlio che si ribella al padre.
Non è la Compagnia degli uomini , con il suo schema
drammaturgico: questa è una ballata, che racconta la storia
di una dinastia in cui il potere si trasmette per via ereditaria.
Cosa significa che “Lehman Trilogy” ha l’andamento
di una ballata? Forse ha un ritmo più poetico che
prosastico, quasi fosse scritta in metrica?
Sono tante strofe, una inanellata nell’altra: in qualche
modo verrebbe da cantarla. Contiene ritorni continui, vere
e proprie formule celate all’interno del discorso, come
nella poesia epica. Quel che in qualche modo dobbiamo
cercare di fare è imprimere un’aria, un andamento
naturale a una forma che naturale non è. Una ballata non
segue l’andamento cronologico, lineare, nella narrazione
di un evento. Ed è quanto accade qui: talvolta si parte
dalla coda, si torna indietro, si ritorna al centro, si
conclude come si è cominciato, in un continuo andirivieni.
Non è una forma naturale per il teatro: a teatro le scene si
giustappongono con un andamento rettilineo, dall’inizio
alla fine. Come si fa a conferire naturalezza a ciò che
naturalezza non ha? Per come la intendiamo
comunemente, la naturalezza, a teatro è ad esempio
quella del colloquio, ma questi sono personaggi che non
possono colloquiare perché ognuno di loro è spesso
immerso in una temporalità diversa da quella degli altri:
una delle scene più complesse e interessanti è quella in
cui il personaggio di Paolo Pierobon ha nove anni, quelli di
Massimo Popolizio e Fabrizio Gifuni ne hanno tra i trenta e
i quaranta, quello di De Francovich è morto da un pezzo
ma ricompare in scena per suscitare una memoria negli
altri due… È uno degli aspetti che mi hanno più colpito di
questa drammaturgia: l’impossibilità di stare dentro un
percorso segnato. Qui si tratta esattamente non di recitare
un ruolo, bensì di abitare una zona narrativa che ha a che
fare con un personaggio. È come se Henry, Emanuel,
Mayer, Philip e tutti gli altri personaggi non esistessero in
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Il mio ruolo, come regista, è far sì che la commedia dica
“queste persone mi stanno leggendo” ma non voglio e
non devo sovrascrivervi il mio giudizio. Posso esprimere
una mia opinione sulle vicende che la commedia
racconta, ma non pretendo che il mio sguardo diventi lo
sguardo dello spettatore… A me il mondo americano non
è mai piaciuto, ma non mi sognerei mai di farlo venir fuori.
Parliamo delle relazioni tra i personaggi. Possiamo
parlare di una dialettica tra padri e figli, tra vecchi e
giovani, oppure no?
Direi di no. Se fossi nel pubblico non prenderei i sottotitoli,
come Padri e Figli, in maniera troppo letterale, perché
potrebbe essere fuorviante. Non abbiamo un padre che
schiaccia un il figlio, o un figlio che si ribella al padre.
Non è la Compagnia degli uomini , con il suo schema
drammaturgico: questa è una ballata, che racconta la storia
di una dinastia in cui il potere si trasmette per via ereditaria.
Cosa significa che “Lehman Trilogy” ha l’andamento
di una ballata? Forse ha un ritmo più poetico che
prosastico, quasi fosse scritta in metrica?
Sono tante strofe, una inanellata nell’altra: in qualche
modo verrebbe da cantarla. Contiene ritorni continui, vere
e proprie formule celate all’interno del discorso, come
nella poesia epica. Quel che in qualche modo dobbiamo
cercare di fare è imprimere un’aria, un andamento
naturale a una forma che naturale non è. Una ballata non
segue l’andamento cronologico, lineare, nella narrazione
di un evento. Ed è quanto accade qui: talvolta si parte
dalla coda, si torna indietro, si ritorna al centro, si
conclude come si è cominciato, in un continuo andirivieni.
Non è una forma naturale per il teatro: a teatro le scene si
giustappongono con un andamento rettilineo, dall’inizio
alla fine. Come si fa a conferire naturalezza a ciò che
naturalezza non ha? Per come la intendiamo
comunemente, la naturalezza, a teatro è ad esempio
quella del colloquio, ma questi sono personaggi che non
possono colloquiare perché ognuno di loro è spesso
immerso in una temporalità diversa da quella degli altri:
una delle scene più complesse e interessanti è quella in
cui il personaggio di Paolo Pierobon ha nove anni, quelli di
Massimo Popolizio e Fabrizio Gifuni ne hanno tra i trenta e
i quaranta, quello di De Francovich è morto da un pezzo
ma ricompare in scena per suscitare una memoria negli
altri due… È uno degli aspetti che mi hanno più colpito di
questa drammaturgia: l’impossibilità di stare dentro un
percorso segnato. Qui si tratta esattamente non di recitare
un ruolo, bensì di abitare una zona narrativa che ha a che
fare con un personaggio. È come se Henry, Emanuel,
Mayer, Philip e tutti gli altri personaggi non esistessero in
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