Page 8 - LEHMAN TRILOGY - STEFANO MASSINI - LUCA RONCONI - PICCOLO TEATRO DI MILANO
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Esiste un filo che lega questa commedia a testi che
ha portato in scena in altri periodi della sua vita e
della sua carriera, penso a “Professor Bernhardi” di
Schnitzler, alla “Compagnia degli uomini” di Bond,
allo “Specchio del diavolo” di Ruffolo, fino a risalire
a “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Kraus?
Indubbiamente c’è e non perché io sia “uno che vuol dare
lezioni”. Niente è più lontano da me. Ci sono affinità
perché penso che in teatro si possa fare tutto, che il
teatro sia onnivoro. Penso anche che il teatro debba
prescindere dalla soggettività delle persone, dell’autore,
del regista, dell’attore, per acquistare una propria
oggettività. Lo specchio del diavolo era uno spettacolo
giocoso, pur nel rispetto del testo di Giorgio Ruffolo, un
economista di grande statura. Questo è possibile perché il
teatro, sempre – insisto – rimanendo fedeli all’autore, sa
buttare un occhio, gettare uno sguardo distaccato sulla
materia che va trattando: la scintilla scaturisce non dalla
partecipazione, bensì dal distacco. Se vuoi, più che nei
territori della Compagnia degli uomini , che era una
commedia scritta da un uomo di teatro pensando alle
regole della rappresentazione, qui siamo dalle parti di
Infinities: un’opera che non nasce necessariamente per il
teatro, ma che in teatro trova lo spazio ideale in cui
esistere. E questo valeva anche per Gli ultimi giorni
dell’umanità. Ma ribadisco, non sono testi che scelgo
“per dire la mia”: se c’è una cosa che detesto del teatro
contemporaneo è questo eccesso di soggettività, di “io,
io, io, io, io”...
“Lehman Trilogy” nasce come un racconto diviso in
tre parti, a loro volta articolate in capitoli.
Che lavoro avete fatto, con Stefano Massini, per
trasformarla in una commedia che un gruppo di
attori possa recitare e che potesse essere messa in
scena in due parti?
Quel che mi è accaduto di fare tante volte, ossia leggere
un testo dove il pronome “io” non esiste – e questo,
insisto, è un suo grandissimo pregio, a fronte di tanto
teatro contemporaneo malato di egocentrismo – per
inventarci dei possibili “egli”, “ella”. Mi verrebbe da dire
che siamo andati in cerca di una forma epica, anche qui
facendo un necessario distinguo: siamo lontanissimi da
quello che, specialmente al Piccolo, è stato il teatro epico.
Di brechtiano questo testo non ha nulla: non c’è niente di
esemplare o di dimostrativo. Qui, semmai, è il pubblico
che deve costruirsi la propria versione dei fatti.
Grazie al lavoro che abbiamo fatto in accordo con
l’autore, può farlo vedendo lo spettacolo una parte alla
volta, o scegliendo di abbandonarsi al flusso della
narrazione in un’esperienza più totale.
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ha portato in scena in altri periodi della sua vita e
della sua carriera, penso a “Professor Bernhardi” di
Schnitzler, alla “Compagnia degli uomini” di Bond,
allo “Specchio del diavolo” di Ruffolo, fino a risalire
a “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Kraus?
Indubbiamente c’è e non perché io sia “uno che vuol dare
lezioni”. Niente è più lontano da me. Ci sono affinità
perché penso che in teatro si possa fare tutto, che il
teatro sia onnivoro. Penso anche che il teatro debba
prescindere dalla soggettività delle persone, dell’autore,
del regista, dell’attore, per acquistare una propria
oggettività. Lo specchio del diavolo era uno spettacolo
giocoso, pur nel rispetto del testo di Giorgio Ruffolo, un
economista di grande statura. Questo è possibile perché il
teatro, sempre – insisto – rimanendo fedeli all’autore, sa
buttare un occhio, gettare uno sguardo distaccato sulla
materia che va trattando: la scintilla scaturisce non dalla
partecipazione, bensì dal distacco. Se vuoi, più che nei
territori della Compagnia degli uomini , che era una
commedia scritta da un uomo di teatro pensando alle
regole della rappresentazione, qui siamo dalle parti di
Infinities: un’opera che non nasce necessariamente per il
teatro, ma che in teatro trova lo spazio ideale in cui
esistere. E questo valeva anche per Gli ultimi giorni
dell’umanità. Ma ribadisco, non sono testi che scelgo
“per dire la mia”: se c’è una cosa che detesto del teatro
contemporaneo è questo eccesso di soggettività, di “io,
io, io, io, io”...
“Lehman Trilogy” nasce come un racconto diviso in
tre parti, a loro volta articolate in capitoli.
Che lavoro avete fatto, con Stefano Massini, per
trasformarla in una commedia che un gruppo di
attori possa recitare e che potesse essere messa in
scena in due parti?
Quel che mi è accaduto di fare tante volte, ossia leggere
un testo dove il pronome “io” non esiste – e questo,
insisto, è un suo grandissimo pregio, a fronte di tanto
teatro contemporaneo malato di egocentrismo – per
inventarci dei possibili “egli”, “ella”. Mi verrebbe da dire
che siamo andati in cerca di una forma epica, anche qui
facendo un necessario distinguo: siamo lontanissimi da
quello che, specialmente al Piccolo, è stato il teatro epico.
Di brechtiano questo testo non ha nulla: non c’è niente di
esemplare o di dimostrativo. Qui, semmai, è il pubblico
che deve costruirsi la propria versione dei fatti.
Grazie al lavoro che abbiamo fatto in accordo con
l’autore, può farlo vedendo lo spettacolo una parte alla
volta, o scegliendo di abbandonarsi al flusso della
narrazione in un’esperienza più totale.
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