Page 25 - LEHMAN TRILOGY - STEFANO MASSINI - LUCA RONCONI - PICCOLO TEATRO DI MILANO
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I LEHMAN E CENTOSESSANT’ANNI DI CAPITALISMO AMERICANO
La febbre delle ferrovie permette di comprendere meglio il
seguito della nostra storia. Vi sono state altre crisi, quasi
sempre collegate al funzionamento del mercato
finanziario. Quella del 1929 fu in buona parte dovuta alla
credulità finanziaria, incoraggiata dalle banche, di
risparmiatori e speculatori che sognavano di arricchirsi
grazie al continuo aumento di azioni e obbligazioni.
Quando la bolla esplose, il panico contagiò l’intero
sistema finanziario. Quasi tutte le banche locali chiusero i
battenti e il loro fallimento ebbe per effetto quello di
innumerevoli aziende. La crisi della seconda metà degli
anni Ottanta, durante la presidenza di Bush sr, investì le
società finanziarie immobiliari che avevano garantito una
casa agli americani della classe media dopo la fine della
Seconda guerra mondiale. La crisi borsistica del
2000/2001 fu dovuta, ancora una volta, a una
incontrollabile ondata speculativa.
Vennero poi due clamorosi fallimenti: nel dicembre del
2001 quello di Enron, un colosso energetico che valeva
più di 63 miliardi di dollari, e nell’agosto del 2002 quello di
WorldCom, un gigante delle telecomunicazioni
responsabile di una frode fiscale pari a 3,8 miliardi di
dollari. Uno degli aspetti più clamorosi e inquietanti del
caso Enron fu l’apparente complicità o cecità del suo
revisore. Era Arthur Andersen, una delle società più
autorevoli e rispettate nell’aristocratico club delle
accounting firms . Il caso scoppiò quando fu chiaro che
Arthur Andersen aveva chiuso gli occhi di fronte alle
numerose irregolarità del suo cliente. Si alzò il sipario, negli
anni immediatamente seguenti, su altre società che
avrebbero dovuto garantire alla società americana
l’integrità del sistema finanziario. Erano le agenzie di rating
che nel 2007, alla vigilia di una nuova crisi, promuovevano
ancora con ottimi voti alcune banche virtualmente fallite.
Dopo ogni crisi lo Stato intervenne ed emanò leggi che
avrebbero dovuto prevenire nuove crisi. Ma esisteva
un’altra tendenza, molto più aggressiva: quella di coloro
che chiedevano ai poteri pubblici di lasciare fare alle
banche, di rendere il sistema ancora meno regolamentato
di quanto non fosse già divenuto. Alcuni effetti di questa
politica americana sono stati descritti da Jean-Claude
Trichet, allora presidente della Banca Centrale Europea,
in un discorso al Fondo Monetario Internazionale. Nella
fase che ha immediatamente preceduto la crisi del 2007-
2008 i beni patrimoniali delle maggiori banche
d’investimento americane ammontavano a 22 trilioni di
dollari (rispetto ai 2 trilioni di vent’anni prima): quasi il
doppio del Pil americano. Gli hedge funds gestivano un
po’ meno di cento miliardi di dollari all’inizio degli anni
Novanta; ne gestivano 30 trilioni nel 2007, un aumento di
trenta volte in 17 anni. E infine il valore teorico di tutte le
categorie di derivati è aumentato negli ultimi vent’anni di
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La febbre delle ferrovie permette di comprendere meglio il
seguito della nostra storia. Vi sono state altre crisi, quasi
sempre collegate al funzionamento del mercato
finanziario. Quella del 1929 fu in buona parte dovuta alla
credulità finanziaria, incoraggiata dalle banche, di
risparmiatori e speculatori che sognavano di arricchirsi
grazie al continuo aumento di azioni e obbligazioni.
Quando la bolla esplose, il panico contagiò l’intero
sistema finanziario. Quasi tutte le banche locali chiusero i
battenti e il loro fallimento ebbe per effetto quello di
innumerevoli aziende. La crisi della seconda metà degli
anni Ottanta, durante la presidenza di Bush sr, investì le
società finanziarie immobiliari che avevano garantito una
casa agli americani della classe media dopo la fine della
Seconda guerra mondiale. La crisi borsistica del
2000/2001 fu dovuta, ancora una volta, a una
incontrollabile ondata speculativa.
Vennero poi due clamorosi fallimenti: nel dicembre del
2001 quello di Enron, un colosso energetico che valeva
più di 63 miliardi di dollari, e nell’agosto del 2002 quello di
WorldCom, un gigante delle telecomunicazioni
responsabile di una frode fiscale pari a 3,8 miliardi di
dollari. Uno degli aspetti più clamorosi e inquietanti del
caso Enron fu l’apparente complicità o cecità del suo
revisore. Era Arthur Andersen, una delle società più
autorevoli e rispettate nell’aristocratico club delle
accounting firms . Il caso scoppiò quando fu chiaro che
Arthur Andersen aveva chiuso gli occhi di fronte alle
numerose irregolarità del suo cliente. Si alzò il sipario, negli
anni immediatamente seguenti, su altre società che
avrebbero dovuto garantire alla società americana
l’integrità del sistema finanziario. Erano le agenzie di rating
che nel 2007, alla vigilia di una nuova crisi, promuovevano
ancora con ottimi voti alcune banche virtualmente fallite.
Dopo ogni crisi lo Stato intervenne ed emanò leggi che
avrebbero dovuto prevenire nuove crisi. Ma esisteva
un’altra tendenza, molto più aggressiva: quella di coloro
che chiedevano ai poteri pubblici di lasciare fare alle
banche, di rendere il sistema ancora meno regolamentato
di quanto non fosse già divenuto. Alcuni effetti di questa
politica americana sono stati descritti da Jean-Claude
Trichet, allora presidente della Banca Centrale Europea,
in un discorso al Fondo Monetario Internazionale. Nella
fase che ha immediatamente preceduto la crisi del 2007-
2008 i beni patrimoniali delle maggiori banche
d’investimento americane ammontavano a 22 trilioni di
dollari (rispetto ai 2 trilioni di vent’anni prima): quasi il
doppio del Pil americano. Gli hedge funds gestivano un
po’ meno di cento miliardi di dollari all’inizio degli anni
Novanta; ne gestivano 30 trilioni nel 2007, un aumento di
trenta volte in 17 anni. E infine il valore teorico di tutte le
categorie di derivati è aumentato negli ultimi vent’anni di
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