Page 17 - Celestina - Piccolo Teatro Milano
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Carlo Emilio Gadda
dominanti ragioni e preoccupazioni giuridiche (per la casata, per il
punto di onore: e contro l’ingiustizia della giustizia) che lo
Shakespeare trascende ma non dimentica (the law’s delay, the
insolence of office: le more della legge, i soprusi della burocrazia).
Da configurazioni più prossime a Plauto (servi birbi, ragazze, la
mezzana) questa tragicomedia si differenzia per quel tanto di
ascetico, di doloroso, di ferale, per quell’aspro senso dell’ethos e
quel disperato senso della contingenza che la immettono
piuttosto nel clima surrealisticamente orfico e denegatore dei
Trionfi petrarcheschi: una tecnica trascorrente, fuggente; verso le
lividure della morte e il buio del nulla. L’amore non è che una
parentesi di follia nel precipitare delle cose. E poi le note
fondamentali del costume spagnolo: ragazza nobile (Melibea)
sorvegliata e quasi reclusa; dedizione e soggezione (quasi araba)
della donna all’amante riamato. Si accosta a Plauto, invece, per la
vivezza talora salace e fescennina della battuta, per la tendenza a
“tipicizzare” il personaggio. Ma il lenone plautino si evolve qui
verso il “tipo” soprapotenziato della mediatrice immortale. Nuovi
strati di colore, nuovi apporti etici arricchiscono la Celestina. Ecco:
la felicità e l’orgoglio e il compiacimento con cui ella si butta al
mestiere sono già le note del romanzo moderno: ella è persuasa
di far del bene all’umanità: la sua expertise di recuperatrice è
“necessaria” ai prigionieri tutti, uomini e donne, del fanciullo
faretrato e bendato. In lei la chiaroveggenza infallibile e l’orgoglio
della mammana. Si sente da più che un prete o che un medico.
Nel suo discorrere, trapassa di continuo dall’entusiasmo della
macchinazione e da una spregiudicata ripresa del “dato” di
costume, a certa capziosità edificante, a certa dialettica untuosa e
per dir così gesuitesca, onde accomoda la lente della furberia e
del profitto alla morale dell’inevitabile. E poi Celestina ammannisce
le decozioni e i filtri, serba le lingue di vipera e le code di pipistrello,
ama e loda il vino, le corroboranti sorsate, e la taverna e l’arrosto e
il perfetto disegno de’ corpi giovani, maschili e femminili: è maga,
lavandaia, merciaia, venditrice di profumi e lozioni per capelli, con
che ottiene ingresso a’ tuguri e a’ palazzi: beona senza parerlo,
astuta sempre: tenitrice di una lavanderia suburbana (in realtà
casina da convegni). Invoca il diavolo che le soccorra, e lo vitupera
sottovoce quando non funziona a dovere, chiama a testimone Dio
e “il signor San Michele Arcangelo”: e poi brontola e biascica
giaculatorie eretiche e maledizioni oscene tra le gengive sdentate.
Finisce accoltellata da Sempronio dopo un diverbio circa la
spartizione de’ profitti. Il diverbio avvampa a un tratto, come fuoco
indomabile. Questa prima risoluzione tragica è mirabilmente
raggiunta e strettamente giustificata dall’azione e dai caratteri.
Più manierate e medioevalesche ma pur sempre redditizie
risultano invece e la seconda e la terza (morte dei due servi
giustiziati, morte dei due amanti per accidente e suicidio).
La chiave interpretativa della prima è la realistica: la chiave della
seconda e terza è la surrealistica. Rappresentare la Celestina sul
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