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Il libro del Giudice Elvio Fassone, la drammaturgia che
Paolo Giordano ne ha tratto mi hanno convinto che vi siano
più livelli di approfondimento, di scrittura, di linguaggio che
segnano due mondi, in quello scambio epistolare a
distanza. Di sicuro il leit-motiv è l’ergastolo – argomento
costantemente al centro più di discussioni che di serie
riflessioni. “Strumento” di giustizia o ipocrisia dietro cui
mascherare una condanna a morte civile e umana, con la
formula “fine pena 31 dicembre 9999”?
Sono certo, con amarezza, che il nodo non sarà mai sciolto
ma sarà sempre oggetto di uno “strattonamento” tra
vendetta e giustizia.
Alcuni anni fa, all’interno di un altro progetto del Piccolo
Teatro, un incontro a Palazzo di Giustizia, nell’aula di Corte
d’Assise, vide magistrati e avvocati a confronto su testi
classici: la nostra “sorpresa” fu riscontrare come fosse
difficile, anche per loro, per i magistrati, chiarire la differenza.
L’ergastolo è certo una pena comminata per fare giustizia,
ma non esprime anche il desiderio di vendetta che la
società chiede a gran voce?
Che cosa c’è di diverso, di straordinario in questo testo?
È la lettura, umanissima, della vita del giudicante e del
giudicato.
Il magistrato ha certamente compiuto il proprio dovere nel
solco della legge, ma sente la necessità di leggere il vissuto
di chi vive privato dello scorrere dei giorni, della speranza
cui aggrapparsi, in un costante, quotidiano senza tempo.
Sente il bisogno, non del perdono, ma di un possibile
percorso di riscatto, prima personale e poi sociale, del
condannato.
L’altro elemento che colpisce è il linguaggio del Giudice e di
Salvatore. Non è solo un modo di esprimersi formalmente
diverso – che in Salvatore sembra evolversi sul piano della
grammatica. È l’espressione, nei due, dei Codici in cui sono
“costretti”: Codice Penale per il Giudice; un “codice di
appartenenza” a una comunità che vorrebbe sostituirsi allo
Stato di diritto quello di Salvatore.
Dal testo emergono due solitudini, poste a confronto nel
lungo epistolario. È una distanza che lo scambio delle
lettere acuisce, ma si trasforma in un’assunzione di
paternità del Giudice che non si arrende al “fine pena mai”
di un altro uomo.
La scelta di Mauro Avogadro di portare in scena la
“drammaturgia di rapporti umani” incarnata da Sergio
Leone e Paolo Pierobon in un unico ambiente, progettato
con lo scenografo Marco Rossi, sottolinea con straordinaria
efficacia questa vicenda umana.
Sergio Escobar
Direttore Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
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